Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

Il disturbo ossessivo compulsivo

Rituali e piccole manie

Ciascuno di noi sa di avere certe piccole manie. Le ha, ma non ne parla: per pudore o per semplice automatismo. Vediamone qualcuna.

Ecco un uomo che prima di andare a dormire compie i suoi soliti riti: in cucina ruota con cura la maniglia del gas per sincerarsi che sia chiusa; poi va al portoncino d’ingresso, infila la chiave e la gira nella toppa tre volte; nella stanza dei bambini sistema i giocattoli in un certo ordine rigoroso; prima di distendersi sistema le sue scarpe parallelamente l’una all’altra. Una volta a letto, ripensa un attimo ai gesti compiuti e solo se questi sono stati eseguiti alla perfezione (cioè senza alcuna variazione rispetto ad uno schema preordinato) riesce infine ad addormentarsi. Si tratta di piccole manie del tutto innocue, di cui infatti si parla poco. In effetti esse ci affliggono, e tuttavia preferiamo fingere di ignorare la loro sottile tirannia. Sono per noi ovvie e abituali.

Ma poniamo che uno dei compiti rituali prescritti non sia stato eseguito alla perfezione: cosa può accadere a questo punto? In taluni casi (i casi affetti da quella sindrome che il DSM IV classifica come DOC, Disturbo Ossessivo Compulsivo) può accadere che la situazione psicologica si aggravi improvvisamente. Ecco allora che il nostro uomo non riesce più a dormire: è tormentato dall’angoscia; la mancata esecuzione della sequenza rituale gli provoca un’ansia incontenibile. Infine, solo se si rassegna ad obbedire e a completare il rito, egli potrà recuperare una certa calma e con essa, forse, la pace del sonno. Di fatto, egli deve obbedire a un comando invisibile. Questo comando è una compulsione: un impulso poderoso e incontrovertibile, fuori del controllo volitivo e razionale soggettivo. È dentro di noi, nella nostra mente, e tuttavia non è sotto il controllo della nostra volontà. Ci domina. Se ci opponiamo ad esso ne usciamo sistematicamente sconfitti.

Con la compulsione siamo passati, impercettibilmente, dalle “piccole manie” al “tormento ossessivo”. Il tormento ossessivo dimostra che ciò che sfugge alla nostra volontà e ci domina è il senso di colpa. Se non obbediamo all’invisibile comando di eseguire il nostro rito, ci sentiamo in colpa: è nostro dovere obbedire, pena un tormento senza fine. Perché?

“Relatività” (1953), litografia, di Maurits Cornelis Escher.

Se si analizza nel dettaglio il rito da eseguire, ci si accorge che esso ha sempre a che fare con un dubbio: il dubbio di poter causare danno a persone amate o a valori condivisi. Il nostro uomo deve sincerarsi di aver chiuso la rondella del gas perché se non l’avesse fatto ciò potrebbe causare la morte dei suoi cari; deve chiudere a tripla mandata la porta perché da lì potrebbero penetrare in casa dei malviventi e danneggiare le persone o i beni di famiglia; deve porre in ordine i giocattoli dei bambini, perché lasciarli nel disordine sarebbe come abbandonare i figli a se stessi.

Il tormento ossessivo, dunque, riguarda sempre l’atroce dubbio morale di essere insensibili al male di persone e cose amate o persino (e ciò è ancora più terribile) di agire desiderando quel male. Preso atto di questa terribile possibilità, la coscienza morale (coscienza che la psicoanalisi ha denominato Super-io) ci impone l’esecuzione di rituali che attestino la nostra devozione assoluta, l’obbedienza cieca, ai doveri nei confronti dei quali ci si sente inconsciamente e tuttavia angosciosamente in difetto.

L’esorbitante crudeltà dei sensi di colpa diviene, infine, palese nei casi in cui l’intera vita di un uomo può essere rinchiusa in una prigione di comportamenti rituali imprescindibili. In questi casi, allo scopo di eliminare alla radice la fonte dei sensi di colpa, che è l’ansia di poter scegliere il male piuttosto che il bene, il soggetto ossessivo si chiude in una gabbia di prescrizioni mentali e comportamentali che, nelle sue intenzioni, dovrebbe portarlo appunto al totale e tranquillizzante annullamento della sua personale libertà di scelta.

La nevrosi fobico-ossessiva

Col tormento ossessivo e la strutturazione di una personalità incentrata sul terrore della deviazione dal rito (cui si collega il senso di colpa: la terribile sensazione di essere meritevole di una punizione, esterna o interna all’io), si è strutturata la nevrosi ossessiva.

La parola “fobia” deriva dal greco phobos, che significa “paura”; la parola ossessione deriva dal verbo latino obsidere (assediare) e significa “insistenza”: la nevrosi fobico-ossessiva è dunque un disturbo della psiche caratterizzato da eventi di natura soggettiva che si ripetono: pensieri che insistono nella mente e azioni che insistono nel comportamento, ricorrenti in forme sempre uguali, tali da configurare veri e propri rituali.

La funzione del rituale è quella di scongiurare l’eventualità che sia presente o accada nella vita propria o di un amato qualcosa di negativo, di cui si prefigura in modo più o meno cosciente il possibile avvento. Per esempio si può temere lo sporco e ci si può sentire costretti a lavarsi infinite volte secondo un rituale rigido o bizzarro; si può temere una malattia e ci si può sentire costretti a evitare contatti contagiosi; si può temere la morte di qualcuno e essere allora costretti a guidare o parlare o scendere le scale in un certo modo, e ogni deviazione nei confronti del rituale fa sentire possibile l’avvento della disgrazia temuta. In tal senso è intuibile che come il rito rappresenta l’obbedienza, la devozione del soggetto a una entità superiore, la disgrazia costituisce la punizione o la fonte della punizione stessa. Colui che trascura di obbedire rende possibile l’avvento della disgrazia, la quale in tale odo si configura come la punizione della sua colpa.

Il rito scongiuratorio

La nozione di rito emerge in antropologia culturale grazie a James Frazer, che lo descrive come la credenza – tipica dei popoli cosiddetti “selvaggi” o “primitivi” – nell’efficacia di pratiche, gesti e parole specifici nella funzione di controllare la natura delle forze fisiche, soprattutto nel loro versante minaccioso e terribile. L’antropologia ha dunque scoperto per prima la relazione tra esecuzione di un rituale e auspicio di un controllo. In questa direzione interpretativa, il rito mette in rapporto la comunità umana con la divinità, di cui si intuiscono i voleri, ma non se ne può controllare la volontà. Il rito, mentre offre al dio un dono o un atto gradito, esprime la dipendenza e l’obbedienza dell’uomo. Frazer e gli antropologi della sua generazione focalizzano soprattutto l’effetto scongiuratorio sull’angoscia di precarietà, identificando dei e forze naturali. Per contro, la psicologia dialettica, mette in risalto piuttosto il significato di obbedienza, dalla perfetta rappresentazione della quale risulta l’evacuazione di angosce punitive, collegate alla colpa di trasgredire e disobbedire a una volontà superiore.

In effetti, Freud è stato il primo a intuire che il nevrotico ossessivo proietta sul mondo esterno – e nella fattispecie sul mondo degli dei o degli oggetti magici animati – una potenza punitiva la cui volontà è controllare e punire i desideri soggettivi trasgressivi. In questa direzione egli arriva ad affermare che la nevrosi ossessiva è una sorta di religione privata, ossia un equivalente patologico della formazione religiosa, come anche che le religioni ufficiali sono in fondo una nevrosi ossessiva universale. Con ciò egli intende dire che se il problema psicologico dell’uomo è scongiurare la punizione da parte della coscienza morale (il super-io), allora a tale scopo l’umanità ha creato la religione; ma laddove queste perdono il loro vigore e la loro funzione, la nevrosi ossessiva prende il loro posto.

Nella sua scia, ma con la solita originalità, Jung interpreta la magia insita nei rituali come un modo per identificarsi con la potenza con cui si è in rapporto per controllarla e di assorbirla. All’interpretazione di Freud. egli aggiunge un desiderio di controllo della potenza evocata non solo a fini scongiuratori, ma anche utilitaristici.

Il punto focale è che la nevrosi ossessiva, incardinata sull’evitamento fobico di alcuni pensieri e atti e allo stesso tempo sull’esecuzione di altri pensieri e di atti di carattere rituale, assolve alla funzione di forzare l’obbedienza del soggetto e quindi di scongiurare una punizione.

La nevrosi fobico-ossessiva è dunque caratterizzata dal dominio di una rigida dittatura mentale e comportamentale, che coarta la libertà del soggetto in funzione di un bene e di un male fuori del suo controllo razionale.

L’ossessione del lavoro e la ricerca del successo

Esiste un’altra forma di strutturazione ossessivo-compulsiva della personalità, forma invisibile in quanto apparentemente “positiva” e “virtuosa”. Chi n’è prigioniero spesso non sa di esserlo; di solito, anzi, è convinto di vivere e di agire nella più piena libertà interiore, anche perché chi lo osserva condivide con lui, il più delle volte, la stessa impressione. La prigione psicologica, la gabbia mentale cui mi riferisco è, in questo caso, l’ossessione del lavoro e la ricerca del successo. “Successo” che può essere inteso, ovviamente, secondo le forme più varie ed eterogenee: per alcuni è il raggiungimento del grado massimo di una carriera (col suo corrispettivo economico); per altri è il pieno riconoscimento di straordinarie qualità pratiche e morali; per molte donne è lo splendore della propria virtù rappresentato da una casa specchiata o da figli perfetti.

La nevrosi del successo è tesa tra due polarità opposte e sinergiche che la rendono una prigione sottile e implacabile: da una parte il miraggio di raggiungere la vetta, l’eccellenza, e di essere così gratificati dall’ammirazione altrui; dall’altra l’angoscia di essere sconfitti nella “lotta per la vita”, precipitando così al livello inferiore dell’umanità fino a rivelare la negatività assoluta della propria immagine interna. Questo radicale e tormentoso “senso d’inferiorità” è l’energia dinamica che alimenta la corsa incessante della nevrosi del successo. Corsa senza fine: perché più ci si sottomette al ricatto del dovere più si condanna e si rimuove nell’inconscio la naturale tendenza alla libertà affettiva e istintuale, che così continua ad alimentare “dal basso” l’insoddisfazione e l’infelicità.

L’ossessione del lavoro e la nevrosi del successo costituiscono la variante più moderna e più diffusa della tradizionale nevrosi fobico-ossessiva: il lavoro, coi suoi ritmi, le sue esigenze prestazionali, la sua restrizione monotematica della vita, assolve alla stessa funzione dei rituali e delle compulsioni tipici della psicopatologia ossessiva più grave. L’unica differenza è che la prigione fobico-ossessiva classica tende alla staticità, quella moderna è viceversa una “prigione dinamica”, fondata sul movimento incessante. I suoi effetti negativi non sono da sottovalutare: chi n’è affetto è perennemente scontento, per cui da un lato può vivere in un regime depressivo infraclinico costante; dall’altro può sviluppare una personalità sottilmente o palesemente sadica attraverso la quale si vendica su altri della propria frustrazione.

Il disturbo ossessivo compulsivo e le sue relazioni col DAP

Dovrebbe essere evidente, a chi è avvezzo alla sintomatologia propria del DAP (disturbo da attacchi di panico), che una quota rilevante — anche se non maggioritaria — dei soggetti che sviluppano attacchi di panico appartiene alla categoria suddetta degli ossessivi iperattivi. L’attacco di panico sopraggiunge, in questi casi, nel momento in cui una parte della personalità si ribella alla dittatura della virtù (lavoro, volontariato, prestazioni varie) e “cede”, scompensando il sistema e facendo scivolare l’io verso i valori inferiori della scala: debolezza, pigrizia, disordine, immoralità: il terrore che in tal modo diventi palese l’immagine interna negativa provoca una reazione di panico che argina e paralizza l’incipiente ribellione.

Il DAP di tipo nevrotico (non psicotico) può originare, dunque, sia da una struttura di personalità isterica che da una ossessiva (nella proporzione rispettiva del 70% e del 30%). La differenza sostanziale fra il DAP originato dal disturbo ossessivo compulsivo e quello originato dall’isteria consiste nella struttura dell’io: riflessivo ed ego-centrato nell’ossessivo, relazionale e quindi etero-centrato nel dappista isterico. L’ossessivo, in sostanza, è un tipo che si guarda dentro in solitudine; l’isterico è un individuo che ha bisogno di un altro con cui è in relazione per capire cosa c’è dentro di sé. Quindi la strategia dei sintomi, la strategia che il super-io (la coscienza morale) adotta per controllare e inibire l’io, si organizza secondo la specifica e peculiare struttura dell’io. Nel disturbo ossessivo il soggetto è riflessivo ed è quindi almeno in parte consapevole del dubbio morale da cui è tormentato: egli “intuisce” o “sa” di ospitare dentro di sé impulsi ostili verso ciò che ama, ed è proprio a causa di questa “consapevolezza” che egli si chiude in una gabbia di idee e di comportamenti che annullano la sua possibilità di agire, cioè di fare del male. Per contro, il soggetto isterico, la cui autocoscienza dipende da una relazione, non ha consapevolezza diretta del proprio mondo interno, sicché la possibilità di attaccare gli affetti e di fare del male così come gli è resa cosciente da un altro, allo stesso modo solo da un altro gli può essere inibita. In sostanza, mentre l’ossessivo si chiude in una gabbia di idee e comportamenti rituali, l’isterico si chiude in una gabbia relazionale, una gabbia le cui sbarre sono rapporti umani che hanno per lui un valore affettivo o simbolico.

Secondo la Psicopatologia Dialettica — la scienza psicologica di cui sono co-autore — il nucleo patogenetico (produttore di malattia) delle due sindromi psicopatologiche (il DOC e il DAP) è lo stesso: ed è l’angoscia di poter fare del male a persone o valori amati. Differente è solo la modalità inibitoria rappresentata dalla struttura dei sintomi: intrapsichica nel caso del DAP di origine ossessiva, relazionale in quello di origine isterica. Diventa allora necessaria una puntualizzazione sui gruppi: poiché il DAP è stato affrontato sinora a partire dalle sue relazioni con l’isteria (cioè come un problema di relazione), si è sviata la corretta interpretazione del DAP di origine ossessiva, nel quale il “responsabile” sia della dipendenza che della inibizione psichica è il rigido sistema morale del soggetto stesso, non un partner. Talvolta, dunque, l’attacco ai legami è utile, perché rigenera il senso di indipendenza; ma perlopiù è dannoso (soprattutto nei casi di origine ossessiva), perché laddove il soggetto è predisposto ai sensi di colpa la loro accentuazione incrementa o cronicizza la produzione di sintomi.

In sintesi, l’attribuire la responsabilità del DAP (dipendenza più panico) a un partner o a un genitore ha comportato la confusione fra sana conflittualità emancipativa e pura distruttività vendicativa; cioè, in sostanza, ha comportato una ideologia della guarigione fondata su:

  1. attacco ai legami affettivi,
  2. idealizzazione della forza e del successo o addirittura della vendetta, con
  3. conseguente accentuazione del senso di colpa e dei sintomi a funzione inibitoria (ansia e attacchi di panico).