Nicola Ghezzani

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Nicola Ghezzani vive e lavora a Roma. È psicologo, psicoterapeuta, formatore alla psicoterapia e autore di numerosi saggi, articoli, libri. Ha formulato i principi della psicoterapia dialettica. Scrittore da sempre, ha dedicato una parte considerevole del suo lavoro psicologico, terapeutico e di ricerca alle dotazioni psichiche e alla creatività.

La dipendenza affettiva maschile

L’inerme

La dipendenza affettiva maschile ha un tratto psicologico costante: la negazione di una identificazione maschile dominante (negazione che può essere sperimentata ora come rifiuto attivo, ora come rinuncia passiva). Il soggetto maschile con tendenze alla dipendenza affettiva ha rifiutato (o gli è stata preclusa) l’identificazione con il tipo del maschio dominante, perché l’ha percepita, sin dall’adolescenza e spesso anche dall’infanzia (grazie all’osservazione degli adulti), come rigida e costrittiva. Il risultato è una personalità inerme, dipendente e priva di capacità difensive.

Fotografia di Helmut Newton

Questo tipo di scelta identitaria si può essere verificata nell’infanzia, allorché il bambino osservando nella sua famiglia maschi dominanti e prepotenti li ha aborriti; oppure quando il bambino ha dovuto servire le esigenze di una madre o di un padre “malati” (ansiosi o depressi, o anche prepotenti e narcisisti, o affetti da alcoolismo o altre forme di dipendenza o alterazioni della personalità) al punto da sfruttare il figlio per averne un appoggio e soddisfare esigenze patologiche. Nell’infanzia è frequente il caso in cui il bambino sensibile viene sottomesso – di solito in modo non consapevole e volontario – da una madre ansiosa o depressa molto esigente e, in fondo, giudicante. Educato al regime di sottomissione alla volontà femminile, pena il sentirsi non solo e non tanto “cattivo”, quanto insignificante e privo di alcun valore, divenuto adulto, il maschio è soggiogato da una donna esigente e colpevolizzante o anche solo bisognosa.

Lo stesso processo di assoggettamento alla volontà femminile si può essere verificato nell’adolescenza, allorché di fronte alla donna reale, il ragazzo non se l’è sentita di diventare egoista e anaffettivo come il codice sociale gli richiede, soccombendo di conseguenza al maggior potere da lui stesso conferito alla donna, anche nel caso questa lo maltratti.

Da questo processo di rifiuto dell’identità maschile dominante nasce una vera e propria idealizzazione della donna (talvolta a cominciare dalla propria madre), per cui il dipendente maschio letteralmente “adora” l’oggetto amato e rinuncia a dominarlo o umiliarlo o anche contestarlo in qualunque forma (e se lo ha fatto, i sensi di colpa lo tormentano e lo fanno recedere).

Si ha allora una idolizzazione simile a quella che leggiamo nel cosiddetto Amor cortese di origine provenzale, poi felicemente trasferito in Italia nelle forme dello Stil novo, prima in Sicilia – con Jacopo da Lentini – poi in Toscana – con Brunetto Latini, Cino da Pistoia, Guido Guinizelli, Guido Cavalcanti e infine Dante, che risolve questa forma retorica in una consapevole idealizzazione di tipo neo-platonico, nella quale la donna amata, angelicata, introduce al Paradiso e come tale va adorata e rispettata. Nei modi dell’amor cortese il cavaliere diventa poeta per adorare la sua amata (che talvolta gli è preclusa perché sposata a un re o altro nobile) e la adora fino al limite di rinunciare alla possibilità di un possesso sessuale, che gli appare come una violenza. Chiaro che in questa posizione egli può essere letteralmente dominato dall’arbitrio e dai “capricci” della donna amata.

Allo stesso modo, nella dinamica psicologica della dipendenza affettiva, l’uomo idealizza la donna fino a farsene dominare. E se lei non lo ama (perché non vuole o non può amare), l’innamorato soffre fino a perdere il controllo di sé (secondo modalità identiche a quelle femminili). In sostanza, l’uomo mostra una strutturazione di tipo passivo masochistico, che in lui – ancor più che nella donna – implica una rinuncia alle prerogative del proprio genere sessuale, fra le quali soprattutto l’indipendenza sessuale e una vita autonoma.

La psicoterapia, in questi casi, va ad analizzare il nodo della dipendenza affettiva primaria (dalla madre o da sorelle maggiori o altre figure femminili) perché il paziente prenda coscienza dell’origine del problema e della radicale asimmetria insita nel rapporto fra un adulto e un bambino, nonché la violenza delle angoscia di colpa e di abbandono. Ma anche riabilita le funzioni mature (aggressive e compassionevoli) di emancipazione, distacco e costruzione di un mondo autonomo.

Il persecutore

Esiste una dipendenza affettiva media (di cui ho appena parlato) e una grave; infine, ve n’è una che non è una dipendenza in senso proprio, ma qualcosa di più grave.

In alcuni casi l’uomo sviluppa una dipendenza affettiva caratterizzata da gravi spunti nevrotici: deliri di gelosia più o meno morbosi. In questi casi c’è una dipendenza di tipo nevrotico, ma altrettanto spesso si tratta di spunti borderline o anche psicotici – e quindi si parla di gelosia paranoide o di monomania delirante. In questo tipo di dipendenze è facile intravedere la presenza di gravi patologie della personalità. Siamo qui ad un livello diverso dalla dipendenza affettiva più ordinaria e comune, di tipo ossessivo, isterico o depressivo, nella quale il tema della perdita della stima di sé é ben contenuto nella sfera dell’Io e presuppone l’altro come soggetto dotato di una volontà autonoma in qualche misura rispettata (semmai da persuadere e conquistare, non da azzerare con un atto violento). Non di meno, in tutti i casi di dipendenza di tipo nevrotico o borderline, leggeri, medi o gravi, è possibile restituire la salute psichica al soggetto disturbato mediante una psicoterapia.

Per capire, invece, cosa non è dipendenza affettiva occorre sgombrare un grave equivoco. L’uomo che maltratta e perseguita la donna amata e arriva persino a ucciderla in un impeto di gelosia o di odio passionale può esser definito un dipendente affettivo? No, almeno in senso stretto. In genere l’uomo arriva a perseguitare e uccidere la propria compagna o comunque la donna desiderata perché ha perso, per volontà della donna che gli si è contrapposta, alcune prerogative del suo genere sessuale, per esempio un preteso diritto di scelta o uno status sociale “privilegiato” (marito rispettato o padre dei figli in comune...); quindi uccide per vendetta: questa è delinquenza, più o meno ossessiva e parossistica, non è psicopatologia in senso proprio. Altre volte, a questo impulso delinquenziale si associa il piacere di veder soffrire la propria vittima: e allora siamo nell’ambito della perversione sadica e della psicopatia.

Ebbene in questi ultimi casi, narcisisti e crudeli, poiché costoro avvertono la propria personalità come ego-sintonica, ossia a loro stessi gradita, c’è bisogno di un impegno clinico molto più complesso e d’altra parte vi sono minori possibilità di guarigione. Questi casi vanno trattati come varietà della perversione, della psicopatia, della delinquenza.

In sintesi

Il punto per dirimere la questione generale dei disturbi da dipendenza affettiva è, in sintesi, che l’amore non è potere. Le due cose non sono sovrapponibili, salvo nel senso che l’innamorato si affida alla persona amata – le conferisce dunque un potere. Ma, se a sua volta lo ama, la persona amata sostiene il suo innamorato solo per il suo bene e lo libera dal bisogno con il proprio amore. Sia per l’uomo che per la donna, qualora il potere (ossia il bisogno compulsivo di essere serviti e adulati) prevarichi il sentimento di reciprocità e di libera dignità del partner, esso produce forme di patologia più o meno gravi: il manipolatore che esige servitù amorosa, il sottomesso che agisce allo scopo di scongiurare la paura di essere rifiutato, l’infatuato che si prodiga in atmosfere romantiche che poi nega di colpo per paura di esserne schiavizzato. In casi per fortuna rari, la patologia può sconfinare in azioni violente o persino delittuose più o meno impulsive.